Anche il
sottoprefetto di Pistoia, cav. Vittorio Della Nave, nella relazione che inoltrò a Roma in occasione
dell’Inchiesta Jacini, scriveva:
“Nel vasto campo agricolo – Pistoia era terra largamente rurale e
del resto l’inchiesta si occupava delle condizioni delle campagne – il cibo predominante era il pane
ed i suoi derivati: zuppe, pancotto, panmolle, ecc.” (Cipriani A., Capecchi P., Tesi L., Una fetta di
pane: Storia e ricette del pane toscano, Pistoia, Libreria dell’Orso, 2004, pp. 9-29).
L’uso di materie prime diverse dal frumento per il confezionamento del pane, associato
all’introduzione di setacci che permettevano l’ottenimento di farine sempre più fini, determinò
come conseguenza la contemporanea presenza sul mercato di pane dalle caratteristiche
profondamente diverse dal punto di vista sia della qualità, sia del colore.
A tal proposito, Alberto Cipriani, sottolinea che “soprattutto durante il Medioevo, il pane si
differenziò in modo marcato a seconda delle classi sociali: bianco e di buon grano per i potenti ed i
ricchi, scuro e fatto con granelle inferiori (o con qualunque cosa si ritenesse edibile, durante le
carestie), per i poveri… Alle classi subalterne si addiceva un pane inferiore perché loro spettante, e
perfino perché quello dei signori avrebbe fatto loro male! Era dunque ritenuta valida e giusta la
distinzione fra «bocche da pane» e «bocche da biada6
»; una divisione che riduceva la gran parte
degli individui, i sottoposti, i servi, i villici, a sorta di bestie” (Cipriani A., Capecchi P., Tesi L., op.
cit., pp. 9-29).
Nel 1784, Lamberto Pignotti, nel suo scritto intitolato Istruzioni mediche per le genti
di campagna sosteneva che: “il pane nero, duro è meno dannoso di quel che si crede, anzi il gran
Boerhare ci insegnò che è necessario per i contadini un vitto di materie un po’ più difficile a
digerirsi di quello che sia il vitto delle persone delicate; altrimenti, se si cibassero di pan bianco e
cibi delicati, nell’esercizio rusticano languirebbero i loro stomachi ogni momento e avrebbero ogni
istante bisogno di nuovo cibo” (De Simonis P., “L’alimentazione”, op. cit.).
Nel XIX secolo, con il miglioramento delle condizioni di vita, il pane scuro, espressione di
divisione di classe, fu rifiutato e anche le classi più povere pretesero di consumare un prodotto più
elaborato e sbiancato, che pur risultando più povero dal punto di vista nutritivo aveva una valenza
sociale.
Comunque, bisogna ricordare che, agli inizi del Novecento esistevano ancora i forni di pane
di lusso, cioè quelli che producevano pane utilizzando farina tipo “00” o “0”, e forni di pane
comune (Laniado N., “Buono come il pane”, Nuova Cucina, 1984, n. 32, maggio, pp. 50-55).
Per quanto riguarda il pane prodotto in Toscana nel corso dei secoli esistono numerose
testimonianze relativamente alle sue caratteristiche, e alle diverse tipologie che venivano preparate
in relazione alle condizioni sociali ed economiche della popolazione.
Una prima testimonianza sulla produzione di pane sciocco, cioè senza sale, viene fornita già nel
Cinquecento da Pierandrea Mattioli il quale scriveva:
“A volere… fare un eccellentissimo pane,
cerchisi oltre all’avere la buona farina, buona acqua per impastarlo: che sia chiara, di buone fonti
e che non sappia né di fango né d’altro malo odore, mettendovi tanta porzione di lievito che non
abbia poscia il pane a diventare acetoso; e, come che noi in Toscana non vi mettiamo sale, come si
fa altrove, nondimeno secondo l’opinione de’ medici vi conferisce, oltre al farlo più saporito”
(Mattioli P., Volgarizzamento di Dioscoride, Venezia, 1563, p. 258, in Battaglia S., Grande
dizionario…, vol. XII, pp. 466-474). Forse, proprio per questa consuetudine di consumare pane
senza sale, nel XIII secolo, al fiorentino Dante, secondo quanto sostenuto da Carol Field, “sapeva
tanto di sale lo pane altrui, frutto di ben altre tradizioni alimentari…”
7
(INSOR – Istituto
Nazionale di Sociologia Rurale, Atlante dei prodotti tipici: il Pane, Roma, Ed. Agra e RAI Eri,
1995,p. 154).
Il termine Biade veniva usato per indicare piante cerealicole, diverse dalle frumentacee e dai legumi, “solitamente
usate per alimento degli animali e che, se ridotte in farina (mescolata con quella di grano) potevano costituire valido
sostentamento anche per l’uomo” (Bigliazzi Lucia, Bigliazzi Luciana, op. cit., p. 18).
7
«Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Dante,
Paradiso, canto XVII, v. 58).
Relazione storica Pane Toscano a lievitazione naturale.
Nel volume a cura di Walter Bordo e di Angelo Surrusca l’usanza di non usare il sale per la
preparazione del pane toscano risale “al XII secolo quando, al culmine della rivalità fra Pisa e
Firenze, i pisani bloccarono il commercio del prezioso cloruro di sodio” (Bordo W., Surrusca A.,
L’Italia del pane: guida alla scoperta e alla conoscenza: 208 tipologie tradizionali, Bra, Slow
Food, 2002, p. 278).
La preziosità del sale e l’alto costo legato al suo impiego, trova conferma negli
Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo (“Ordinamenti della dogana del sale dell’anno
1339”, in Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di F. Bonaini, Firenze,
1854-1870, vol. I, p. 1260) i quali prevedevano l’imposta del sale, cioè una gabella, volta ad
impedire il contrabbando di questo prodotto.
Con questa tassa si costringevano i cittadini ad
acquistare dallo Stato tale prodotto in misura proporzionale al numero delle Bocche del sale, cioè
dei componenti della famiglia sottoposti a tale imposizione, e a pagarlo secondo il prezzo fissato dal
Camarlengo del sale, cioè l’ufficiale incaricato di occuparsi di ciò che riguardava tale imposizione
(Battaglia S., Grande dizionario…, vol. XVII, pp. 393-398).
Con riferimento al Settecento, nell’articolo terzo dell’opera di Manetti sono riportate notizie sulle
diverse tipologie di “pane semplice”, cioè il pane di frumento che risultava “ottimo… per uso
quotidiano, e per mangiarsi in zuppe, o minestre, ovvero unitamente con altri cibi e vivande”
(Manetti S., op. cit., pp. 61-74). L’Autore fa riferimento alla produzione di tre diverse qualità di
pane: il Sopraffine o Buffetto, il Pan tondo e il Pane ordinario. Il primo era “fatto di schietto fior di
farina , o di specie migliore e scelta di grano…” (Ibidem).
Per quanto riguarda il secondo, si legge:
“Il nostro Pan bianco, che si fabbrica dagli Appaltatori del Pan Fine, più grande del comune o
venale chiamato Pan tondo… Il Pan tondo poi comune è anch’esso di questa specie, ma un poco in
bontà, e qualità inferiore.
Chiamasi questo Pan tondo per essere a pani non solo tondi di figura, ma
staccati per ogni verso, e non a piccie, o filari come sono altri Pani di qualità, e differenze diverse.
Le specie di Grano, che servono a fare una tal sorte di Pane, sono le specie tutte di Gran gentile, il
Marzuolo, la Calbigia, e la Civitella” (Ibidem).
A proposito dei produttori di Pan fine, bisogna
ricordare che Pietro Leopoldo “abolì (editto 23 maggio 1770) le privative, che godevano alcuni
fornaj di fabbricare e vendere il pan fine, e altresì (editto 6 giugno 1770) i regolamenti che ne
fissavano il peso e la forma…” (Morena A., op. cit., p. XXXI).
In Toscana, ordinariamente, veniva
preparato un altro tipo di pane della qualità sopraffine “fatto a piccie piccolissime, o sia in varie
porzioni bislunghe debolmente insieme attaccate, e più gonfie, o grosse verso le loro estremità, che
si addimanda, Cacchiatelle.
Questa sorte pure è tra le qualità venali, … è gradito per mangiarsi
fresco da chi non ama nel Pane molta midolla, e si adopra dal Popolo per farne le pappe ai
fanciulli, venendo queste delicate insieme e saporite…” (Manetti S., op. cit., pp. 74-85). Riguardo il
Pane ordinario venale, il Manetti scrive che “detto appresso di noi a fila, ovvero di filo, perché si
cuoceva a filari di più pani insieme attaccati(1),… per la materia del quale è adoprata una farina
inferiore, ma molto ripurgata dalla Crusca, e dal Tritello, ovvero una farina ottima, ma meno
depurata...” (Ibidem, pp. 61-74). A proposito della forma di questo pane, l’Autore, nella nota 1,
riportava quanto segue:
“Appresso di noi sono fila di tre pani attaccati per linea retta, che secondo
l’abbondanza, o la carestia, sono maggiore o minor peso, ma sempre di un prezzo costante. Alcuni
di questi fili però sono il doppio di peso, e di prezzo pur doppio, e diconsi allora Filoni. A Pisa, e
altrove usano fila di soli due pani, e diconsi Picce, Coppiette, e Panelle. Tanto di qualità ordinaria,
che fine, e sopraffine” (Ibidem, p. 67, nota 1).
Al pane ordinario venale apparteneva anche “il Pan Casalingo, o sia quello che si fa comunemente
nelle nostre case e per uso della famiglia,… Varia questo nostro domestico dal venale ordinario,
per esser più bianco internamente, più cotto, e rasciugato in tutta la sua sostanza, e perciò più
colorito all’esterno.
Diverso è ancora per la forma, essendo sempre di grandezza e figura maggiore
del venale” (Ibidem, pp. 61-74). La bontà e la bianchezza del pane casalingo dipendeva dalle “Le parti poi più sottili della Farina, e perfettamente repurgate da ogni particella di crusca, e di farina più grossa,
costituiscono ciò che si dice Fior di Farina” (Ibidem, pp. 61-74).
“A Pisa si dice «piccia» anche di una fila di pani – per solito due panetti tondi – attaccati insieme linearmente”
(Malagóli G., Vocabolario pisano, Firenze, 1939, p. 292, in Battaglia S., Grande dizionario…, vol. XIII, p. 346)