Leonardo da Vinci: la carta


LA CARTA ALL’EPOCA DI LEONARDO:

     Nel lungo cammino verso Occidente, iniziato in Cina, toccando città leggendarie come Samarcanda, Baghdad e Damasco, l’arte cartaria giunse in Europa introdottavi dagli arabi all’inizio del millennio attraverso la Spagna (sede della prima cartiera a Xativa) e la Sicilia, diffondendosi in Italia e nell’area mediterranea grazie ai navigli genovesi, amalfitani, pisani e veneziani, risalendo successivamente verso i paesi a Nord del continente.

 

    Grazie alla perizia degli artigiani fabrianesi, essa ricevette gli apporti determinanti delle filigrane, dei pestelli mossi da forza idraulica e della collatura con il carniccio animale. Le filigrane, risalenti alla seconda metà del XIII secolo, conferirono da allora una precisa identità a ciascun foglio, permettendo di distinguerne l’origine, la qualità, il formato e, in molti casi, le iniziali o i nomi degli artefici. I pestelli, azionati per caduta d’acqua, contribuirono a raffinare perfettamente gli impasti, fino ad allora grossolani, ottenuti con strumenti rudimentali, mentre la colla, ottenuta dai cascami del cuoio e delle pelli, conferì finalmente ai fogli durata e consistenza, qualità che fugarono le diffidenze delle cancellerie, dei contabili e dei notai che fino ad allora avevano preferito affidare gli atti importanti soltanto alla pur costosa ma resistentissima pergamena.

   

Nell’epoca in cui visse Leonardo, la qualità delle carte italiane era nel massimo splendore, tanto che il più importante libro nella storia dell’arte tipografica – la Bibbia delle 42 linee – fu stampata a Magonza in gran parte su carta prodotta a Caselle, come testimoniato dai più recenti e accreditati studiosi internazionali, tra i quali lo storico Paul Needham di Princeton, che vi ha individuato le tre filigrane tipiche della località piemontese (il torello, il bucranio e il grappolo d’uva)

Similmente, la carta italiana era ambita anche da importanti cancellerie orientali, tra cui quella di Costantinopoli (Istanbul),  e proveniva soprattutto dalla zona del Garda (Toscolano, Salò, Riva, Limone etc., località facenti parte dei domini della Serenissima). Queste carte recavano in filigrana l’immagine del quarto di luna

o delle tre falci di luna, iconografia ancora frequente nelle carte venete dell’Ottocento.

All’epoca di Leonardo, le carte erano tutte del tipo “vergata”, mostrando in controluce, oltre alle filigrane, l’impronta della fitta trama di vergelle orizzontali e dei filoni verticali di ottone con i quali era intessuto il telaio formatore. A quel tempo, erano molto usate a Firenze le carte prodotte a Colle val d’Elsa, distinte dalla croce trilobata, come quelle con il giglio o lo stemma mediceo, che potevano provenire da altre città toscane, come Pescia o Prato, mentre quelle pisane e lucchesi erano meno frequenti, risentendo degli alti e bassi dei rapporti con Firenze. Comuni, in quel periodo, in Toscana e nell’Italia centrale, le immagini del basilisco

delle frecce decussate (incrociate)

della testa umana

della bilancia, della scala, del cappello cardinalizio e molte altre, tutte distinte da una grande eleganza di tratto, tipica delle filigrane italiane. Chi avesse la fortuna di poter sfogliare i codici e gli studi di Leonardo del periodo fiorentino, probabilmente si imbatterà in alcune delle filigrane citate, mentre nei codici vergati durante il periodo lombardo saranno facilmente presenti le immagini del biscione visconteo,

, ma anche le filigrane tipiche del bresciano, del Garda, fino a sfiorare il Trentino

Trentino (balestra FIGURA 8, bucranio, stendardo, ancora, fiore etc.) facilmente individuabili dalla presenza della contromarca veneziana (una filigrana più piccola posta nel margine inferiore dei fogli) che riporta le iniziali dell’artefice

unite da una linea orizzontale, dalla quale uno stelo si innalza reggendo un trifoglio.

Fiorenti commerci con Milano erano intrattenuti anche dai cartai genovesi (Voltri) e piemontesi, per cui è possibile la presenza delle tre sfere sovrapposte (dei tre mondi) semplici oppure con due leoni ai lati e coronate, della mano guantata

della colonna con la croce al vertice

della brocca, o dell’effigie di San Giorgio.

Nelle carte de periodo francese, dove l’arte si diffuse già nel XVI secolo, le filigrane più tipiche rappresentano la campana (Provenza), un cuore a volte barrato, insieme ad altri soggetti – la ruota dentata (Alvernia), i gigli entro lo scudo, l’unicorno, il cuore sopra il cartiglio, l’uva (zona di Troyes) etc.

   

    Comune a tutti i luoghi ove si produceva (e si produce) carta è la presenza di corsi d’acqua purissima e ricca di calcio, conditio sine qua non per creare fogli di grande bellezza e durata, come dimostrano i manoscritti e i libri dell’epoca, ancora candidi e privi di ossidazioni, pur dopo tanti secoli di vita. A tal fine bisogna considerare che dal tardo Medioevo fino al secolo dei lumi, i panni dei principi ed i più fini corredi, quando non più freschi o alla moda, passavano ai parenti, ai cortigiani, quindi ai valletti e ai famigli. Raggiunto lo stato di estrema consunzione, venivano riposti, divenendo ambita merce, insieme a panni ben più rustici, degli stracciaiuoli, che li conferivano alle cartiere dove riacquistavano nuova vita sotto forma di candidi fogli, incorporando gli indumenti dei personaggi storici o degli stessi autori o protagonisti delle opere successivamente impresse sulle loro superfici. Un virtuoso riciclo di nobili fibre che conferivano agli stampati e al libro una straordinaria densità identitaria, contrapponendosi all’odierna dissipazione consumistica.

     

    La luminosità che distingueva queste carte che avevano già “vissuto” era dovuta anche ai ripetuti lavaggi col ranno (soluzione di acqua bollente e cenere) e successivi candeggi al sole, seguiti, dopo il conferimento e la cernita in cartiera, dall’ancestrale e delicata pratica della fermentazione entro appositi marcitoi di pietra, al fine di prepararne la riduzione in pasta per mezzo dei pestelli e la conseguente, alchemica trasformazione in fogli di qualità e durata irripetibile. Oggi, invece, anche le stoffe più fini e costose possono al massimo aspirare a una seconda vita come stracci da officina, a causa della presenza, seppur minima, di tessuti di sintesi chimica che ne rendono impossibile il riutilizzo ai fini cartari.

   

     Infine, la preziosità e il rispetto attribuito ai manufatti cartacei è testimoniato sul fitto codice leonardesco dedicato al volo degli uccelli, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino dove, in un cantuccio rimasto libero a destra in alto, Leonardo vergò, nell’inconsueta sua scrittura diritta, una nota di spese domestiche per un totale di soldi 111. Vi appaiono un esborso per la fantesca, crusca e paglia per il cavallo, il costo d’una chiave rifatta e, nella pagina che annuncia il “volo dei grandi uccelli”, due soldi spesi per acquistare un pollo!

   

    Chi scrive, essendo stato battezzato a Vinci sul medesimo fonte ove lo fu Leonardo, ed avendo passato parte dell’infanzia nei luoghi che lo videro fanciullo, è particolarmente lieto di offrire questo breve contributo nell’anno del cinquecentesimo anniversario.

 

fonte: Enrico Tallone