E
se mettessi la carne fra due fette di pane?
Ma
come posso chiamare questo piatto?
Leonardo
da Vinci
Leonardo
fu innovatore e geniale anche in cucina. Regista del cerimoniale e
dei menù delle più importanti feste ducali, come quella per le
nozze di Giangaleazzo Sforza e Isabella di Aragona, che si tennero
nel 1489 a Tortona, per poi continuare a Pavia e a Milano, ci ha
lasciato numerosi appunti gastronomici sparsi fra i suoi diversi
scritti, appunti che dimostrano la sua perizia, la sua golosità, la
sua voglia di sperimentare e innovare anche nei cibi.
Come per i
suoi molti progetti tecnico-scientifici così anche per la cucina
spesso le proposte di Leonardo apparivano eccessivamente creative ai
suoi contemporanei per cui venivano talvolta bocciate da Ludovico il
Moro. La fama di Leonardo amante della tavola tuttavia si sparse e si
tramandò anche nella sua epoca tanto che la cucina rinascimentale ci
tramanda alcuni piatti a lui associati come la carabaccia, una sorta
di zuppa di cipolle con mandorle, aceto, zucchero, pane e formaggio,
variazione di un piatto diffuso, proposto anche dal celebre cuoco
degli Este e dei Gonzaga Cristoforo di Messisbugo.
L’interesse
di Leonardo per la cucina sorge presto in quanto a Firenze si
divertiva con Sandro Botticelli a inventare nuovi menù presso
l’Osteria delle tre ranocchie, forse addirittura da loro gestita. A
Milano Leonardo al gusto di rielaborare la cucina del suo tempo
aggiunge la propria genialità quale ingegnere e meccanico
progettando arditi e quasi surreali macchinari per la cucina, come la
“macchina per spennare la papere” e per “tagliare il maiale a
cubetti”, e mettendo in funzione in il primo girarrosto automatico
di grande semplicità ed efficacia: utilizzava la forza del calore
che saliva nel camino per muovere lo spiedo con una serie di
ingranaggi. Una sorta di motore a energia alternativa ante
litteram!
Ma la vera genialità di Leonardo gastronomo si
apprezza a livello di pensiero e di ideazione. Leonardo per primo
teorizza l’utilità del tovagliolo personale, mentre ci si puliva
abitualmente sulla tovaglia oppure, alla corte di Milano, sul pelo di
conigli vivi legati alla tavola, e concepisce per primo il “panino”
ipotizzando una fetta di carne fra due fette di pane. Leggendo i suoi
appunti notiamo una sua grande sensibilità e un profondo senso
artistico nell’attenzione alla presentazione dei cibi. In un
appunto elenca i suoi “cibi semplici” preferiti, rifiutati da
Ludovico il Moro. Citiamone alcuni: broccoletti lessi con uova di
storione e crema, una cipolla lessa adagiata su di una fettina di
formaggio di bufala e con un’oliva nera in cima, una susina su una
fettina di carne cruda e con un ramoscello di boccioli di melo,
fegato di vitello con salvia e pepe sulla polenta, carote scolpite a
forma di cavalluccio marino con un cappero e pasta d’acciuga. Cibi
semplici, esteticamente curati e composti nella costante ricerca di
un’armonia e di un’equilibrio.
Si divertiva anche con i
“cibi finti” o utilizzati a scopo decorativo: statuette di
marzapane, ghiri fatti con fichi, tartufo nero e cardi, e la “torta
di api”, cioè un piatto composto a forma di ape ma in realtà
cucinato a base di rane stufate nel brodo di maiale, con miele e
uova. Leonardo criticava la maleducazione che imperava nei banchetti
e criticava anche la cucina convenzionale che dominava alla corte di
Milano per la sua eccessiva pesantezza, iper-elaborazione e per la
confusione di troppi ingredienti che facevano perdere la percezione
dei gusti fondamentali e originari, tanto che il nome del piatto non
diceva più alcunché sulla sua identità reale. Uno dei piatti più
semplici preferiti del Duca di Milano era la zuppa di piedini
disossati di pecora, maiale e mucca, marinati con limone e pepe,
arrostiti e serviti sulla polenta tostata. Ludovico il Moro si
rivolgeva a Leonardo anche per le questioni più semplici come
ottenere un piatto di carciofi privi di scaglie e Leonardo
pazientemente si appuntava la semplice soluzione: usare solo il cuore
del carciofo.
Certamente per la cucina sociale di allora ci
saranno stati problemi a livello digestivo, infatti il nostro si
appunta una serie di alimenti utili per smaltire gli eccessi della
tavola quali fagiolini, albicocche, ravanelli. La sua instancabile
febbre creativa lo portava persino a usare il suo discepolo e
servitore Salai quale “esperimento vivente” costringendolo a
cibarsi solo di verdure ed erbe in modo da testare la ragionevole
ipotesi del loro effetto benefico. Questa l’origine del presunto
“vegetarianesimo” di Leonardo che in realtà non era tale, anche
se dimostrava una raffinata sensibilità morale anche in tema di
certi cibi, rifiutandosi ad esempio di cibarsi del ghiro. Nel nostro
autore arte, scienza, curiosità umana, gioco e sentimenti, si
mescolano in un unica tensione vitale e ideale, priva di ideologie e
preconcetti.
Ma quali erano i suoi cibi preferiti? Eccone alcuni
esempi fra le moltissime ricette da lui annotate con passione: la
zuppa di arance e limoni, con uova e brodo di gallina, le anguille
secondo la ricetta del suo amico Donato Bramante, cioè scottate
intinte nel miele, il pesce in pastella con rape dorate, e molti
piatti a base di polenta: aringhe, cipolle e polenta; formaggio,
zampone e polenta; polenta fredda con uova sode e sardine; prugne,
cannella e polenta; palle di polenta con dentro anguille fritte, code
di maiale con acciughe e polenta. Se vogliamo riassumere a tutti i
costi certamente gli ingredienti che più frequentemente prediligeva,
utilizzava o si faceva servire erano le uova, le acciughe e le rape.
Sempre abbondanti in quasi tutti i piatti erano le spezie, aspetto
tipico del Rinascimento, fra cui specialmente il pepe, il coriandolo,
lo zenzero, la cannella e lo zafferano, messo addirittura nel vino.
Non a caso zafferano e cannella, insieme alla palma, erano
considerate piante che Dio aveva concesso ad Adamo di portare fuori
dal Paradiso terrestre. Diffusa anche la frutta secca: noci,
nocciole, mandorle e pinoli.
La bellezza culturale degli appunti
gastronomici di Leonardo emerge anche dal loro essere conditi da un
leggero humour, “inglese” oggi diremmo, e dal loro evocare un
senso di coralità amicale. Leonardo praticava nella sua vita
quotidiana l’armonia che dipingeva e teorizzava: amava le cucine
pulite, attrezzate, e suggeriva di cucinare con l’accompagnamento
della musica, dava consigli di bon ton, era attento conoscitore delle
proprietà e degli effetti medici delle verdure, e organizzava
allegre cene con i suoi amici. I suoi ospiti erano spesso altri
artisti o uomini di cultura come il musicista Atlante Migliorotti, da
cui prese una ricetta di un “budino di Natale” a base di “pesci
bianchi” e tartufo bianco, il matematico Luca Pacioli, il letterato
greco Giorgio Merula, il poeta domenicano Matteo Bandello, nipote di
Vincenzo, priore di Santa Maria della Grazie, Galeazzo Sanseverino,
generale di Ludovico il Moro, Giovanni da Lodi, architetto
veronese.
L’umorismo di Leonardo quando scrive di cucina è
sottile ma irresistibile come quando annota che alcuni quando sanno
di aver mangiato girini in pastella “impallidiscono e lasciano in
fretta la tavola” e quando sentenzia che “per eliminare il puzzo
delle capre bisogna eliminare le capre!” oppure lo apprezziamo
anche in altri passi dove ad esempio finge di stupirsi del perché la
zuppa di mandorle sia chiamata in tale modo dopo averci appena detto
che l’ingrediente base sono i testicoli di pecora! Per la festa di
Tortona del 1489 Leonardo prepara un banchetto di dodici portate dove
ciascun piatto è un “trionfo” che viene introdotto da un
personaggio mitologico che recita una poesia di presentazione. Al
trionfo di “Vertunno e Pomona” corrispondono piatti di mele e
pere “guaste”, cioè così mature da sfiorare il marcio. (Ordine
de le imbandisone se hanno adare a cena, Il Collezionista, Milano,
Biblioteca di Tortona, sez.Tortona, XIV, 29). Altri tempi, altri
gusti, simili a quelli dell’antica Roma! Il primo “trionfo” del
banchetto, introdotto da Mercurio, era costituito da un vitello
“inargentato” pieno di uccelli vivi che uscivano appena si
apriva! Lo spettacolo si incrociava con la buona cucina e con la
poesia.
Il cibo diventa materia di un linguaggio altamente
spirituale nel capolavoro di Leonardo: il Cenacolo, dove sulla tavola
apostolica domina incontrastata l’anguilla con l’arancia, piatto
diffuso nella cucina rinascimentale. Questi due ingredienti assumono
un senso simbolico cristiano molto preciso: l’anguilla è simbolo
cristico, considerata un misto fra pesce e serpente, segno di
vitalità e fecondità, e l’arancio rinvia al Paradiso terrestre ma
pure al travaglio di Cristo quale sole che tramonta nella sofferenza
della Passione. Che sia anguilla ne troviamo conferma nel vassoio
sotto la mano sinistra di Giacomo maggiore dove notiamo il tono
morbido della resa del cibo e il taglio netto sulla destra che rivela
la forma ovale tipica della sezione del corpo dell’animale, con la
sua raggiera interna tipica dei pesci ossei in generale e
dell’anguilla in particolare. Quelli sul vassoio grande di sinistra
difficilmente infatti sono pesci data la loro forma nettamente
allungata e il colore scuro. Devono trattarsi di spiedini di
anguilla, cibo annotato e gustato da Leonardo e allora diffuso, e che
ritroviamo con gli spicchi di arancia in vari piatti.
Ma la vera
sorpresa del Cenacolo di Leonardo quale sacra e mistica
rappresentazione (e tale è, anche se molti se ne dimenticano!) che
utilizza tutto, anche la numerologia della stanza, i cibi e gli
oggetti, per celebrare un cristocentrismo netto, solare e cosmico, la
troviamo se osserviamo all’ingrandimento i frutti dei tre festoni
trionfali che sovrastano la scena dell’Ultima Cena di Gesù Cristo.
Queste ghirlande sono composte da varie erbe, rami e foglie,
alternate da otto o sette fascette bianche e traboccano vitalmente
della più varia frutta: pere, arance, mele cotogne, pesche, more di
gelso, ghiande e datteri. Un solo frutto è difficilmente
riconoscibile in quanto il colore è quasi del tutto consumato, ma
dovrebbe trattarsi di due gruppi di fichi. Anche durante i
festeggiamenti nuziali ducali di Tortona del 1489 pendevano ghirlande
da tutte le case in onore degli Sforza. L’idea di Leonardo è
efficacissima: coronare con una decorazione trionfale alla maniera
dell’antica Roma il dipinto dell’Ultima Cena in modo da
rappresentare socialmente non solo la celebrazione del ruolo dei
Domenicani ma pure l’esaltazione del potere del Duca di Milano il
cui nome insieme a quello della sua sposa appare all’interno della
ghirlanda centrale e i cui stemmi riempiono tutti i festoni.
Ho
cercato di approfondire i significati simbolici di questi frutti,
anche per illustrare meglio il senso della loro presenza nel dipinto.
Almeno due frutti sono omaggi precisi ai committenti dell’opera:
l’arancio per i Domenicani e il gelso per Ludovico il Moro. Ma
forse il senso spirituale più profondo di questo trionfo di frutta è
un altro e consiste nell’alludere al Paradiso terrestre, alla
perfezione e abbondanza dell’Eden, che la redenzione di Cristo
restaura e nuovamente inaugura, tema che troviamo anche in altri
Cenacoli come quello di Ognissanti del Ghirlandaio. Cristo quale
nuovo Adamo. Dopotutto nel Cenacolo abbiamo dipinti ben otto arazzi
nella stanza pasquale che appaiono traboccanti di fiori e rami
fronzuti, anche se purtroppo solo nel primo arazzo di sinistra si
possono ammirare e ben distinguere: peonie, centaura cianus e iris.
Il Gesù del Cenacolo di Leonardo soffre solitario ma circondato da
un giardino di fiori e sovrastato da tre corone fruttanti: Gesù al
centro dei tempi, fra l’Eden eterno e il giardino “nuovo” del
suo sepolcro. Un terzo elemento appare edenico: il tempo della sera.
Il sole sta tramontando. Cristo sarà presto crocefisso. La luce
infiamma di rosso le chiome del Maestro e dei discepoli. Gesù figlio
di Davide sembra avere ora i capelli rossi come il re di Israele, suo
antenato secondo la stirpe di Giuseppe. Verso sera, cioè
biblicamente all’inizio del giorno, Adamo passeggiava e conversava
con Dio.