Il terreno posseduto dal monastero detto di S. Vittore, che si era aggregato all’antica basilica Porziana, doveva in origine arrivare sino alla strada radiale da Porta Vercellina: naturalmente, collo sviluppo continuo della città nella zona fra il circuito del Naviglio e quello del Redefosso, la porzione di quel possesso confinante colla strada di Porta Vercellina, risultando sempre più adatta per case di abitazioni e negozi, venne dal monastero divisa in lotti fronteggianti la strada, e concessi a livello perpetuo: la linea interna di queste cessioni dovette seguire l’andamento della strada, ad una distanza media da questa di m. 70 circa, che consentiva ad ogni lotto di fabbrica di avere la corrispondente zona da sistemare ad orto.
È la pianta catastale di Milano - disegnata a mano dal geometra Giovanni Filippini, ingegnere della serenissima Repubblica di Venezia l’anno mdccxxii - donata al Comune nel 1901. La pianta Dal Re, del 1734 non offre eguale esattezza, ma è interessante per la indicazione della zona a giardini ed orti. Vedasi a pagina seguente.
La chiesa originariamente annessa al monastero di S. Gerolamo dei Gesuiti, eretta nella seconda metà del sec. xv, e trasformata radicalmente sulla fine del secolo successivo, doveva contenere opere artistiche interessanti, conte lasciava supporre la porta laterale di accesso alla chiesa dal borgo delle Grazie, che a nostra memoria si vedeva al n. 37 del Corso Magenta (
vedi piante a pag. 10 e 12) donata al Comune, nell’occasione della riforma in quella casa: un piccolo frammento di scoltura della scuola dei Mantegazza, si rinvenne nella stessa circostanza. Anche la chiesa riformata nel 1589, conteneva decorazioni pittoriche, le quali determinarono la iscrizione di quello stabile comunale nell’elenco degli edifici soggetti a sorveglianza per la tutela delle memorie storiche ed artistiche. Ciò non impedì, che per un deplorevole sentimento di indipendenza da ogni tutela, di cui è invasa l’Amministrazione comunale, qualunque sia il partito imperante a Palazzo Marino, l’ufficio investito del còmpito di tutela siasi trovato a dovere constatare la chiesa di S. Gerolamo rasa al suolo, senza che tale provvedimento fosse stato notificato, almeno per dar tempo al rilievo ed eventuale salvataggio di qualche memoria d’arte.
La indifferenza, sorretta dalla presunzione, determina spesso un erroneo concetto di autorità, pronto a frustrare qualsiasi proposito il quale non miri al materiale ed immediato interesse pubblico.
L’anzidetta porta del sec. xv si trova oggi nelle sale terrene del Castello Sforzesco, ed è un esempio interessante della ornamentazione figurata milanese di quell’epoca: degna della scuola del Mantegazza, potrebbe essere opera di quel «Paulus de la Porta f. q. d. Petri par. S. Protasii in campo» che nel 1495 allogava l’opera sua al monastero di S. Gerolamo, per un anno «in arte tagliaprede in figuris et in allisquibus fuerit necesse» (Biscaro,
a. s. l., p. 379).
La menzione della frase «
mi trovo lire 218, a dì primo aprile 1489» ha indotto a ravvisarvi una «melanconica annotazione» per confermare la cervellotica tesi della miseria, in cui Leonardo avrebbe lungamente vissuto a Milano. Nel fatto, quella frase si legge su di un foglio del
Cod. Atl. (384,
r) cosparso di conteggi relativi ai denari che Leonardo teneva nel suo studio, parte in vari ripostigli, parte della sua borsa: e l’accennata somma non è che una porzione del peculio, che Leonardo teneva a quell’epoca presso di sè.
Le buone condizioni della famiglia del Salaj risultano da vari atti notarili, menzionanti affitti ed acquisti di case, stipulati dal nonno Giov. Batt. da Oppreno: nel settembre 1496 «dominus Baptista de Oppreno filius q. d. d. Andree» abitante in Porta Vercellina, parrocchia di S. Naborre, rilascia ricevuta del pagamento di un canone livellario: nel gennajo dello stesso anno, riceve il pagamento dell’affitto «certorum bonorum altorum in porta vercelina par S. Naboris et Felicis»: nel maggio dell’anno seguente acquista una casa nella stessa parrocchia, per il prezzo di lire 500 imp. Tutto ciò, oltre al titolo di
dominus, concorre ad accertare le buone condizioni della famiglia del Salaj.
Merita di essere rilevato il fatto che il nome era scritto «Salaynus» e il
nusvenne cancellato: il che è un’altra prova della incertezza grafica che si accompagnò al sopranome dato al figlio di «Pietro de Caprotis de Oppreno», il quale nel 1513, essendo da ormai ventitrè anni al fianco di Leonardo, mostrò di preferire quel nome di Salaj, che il maestro aveva da venti anni adottato nei suoi
mss.
[11] Documento pubblicato dal Calvi nell’articolo della
Rassegna d’Arte luglio-agosto 1919, dal titolo:
Il vero nome di un allievo di Leonardo: Gian Giacomo Caprotti detto «Salaj».
Il documento xiii, sebbene non abbia, a stretto rigore, relazione diretta colla vigna di Leonardo, è un elemento essenziale per le vicende del possesso di Leonardo, non solo per essere il documento che contribuì ad accertare nel «Giov. Giacomo» venuto in servizio di Leonardo nel 1490, il figlio di Pietro da Oppreno, affittuario nel 1499 della vigna, ma anche per la attestazione che le sorelle Lorenzina ed Angelina ereditarono da lui: il che spiega la coerenza della proprietà di Lorenzina Caprotti, colla parte di vigna posseduta da G. B. Villani.
La identificazione del Salaj, basata sul documento xiii, venne da me esposta nel
Marzocco 7 sett. 1919, collo scritto «
L’enigma di Andrea Salaj risolto ».
È singolare la menzione di Lorenzina de Caprotti come «legataria suprascripti quondam dom. magistri Leonardi» anzichè come erede del fratello Salaj, al quale direttamente Leonardo aveva lasciato la metà della vigna. A questo proposito, ricordando come Leonardo abbia nel 1508 prestati 13 scudi a Salaj «per compiere la dote alla sorella» si può pensare che questa fosse la Lorenzina, sposata a mag.
oTomaso Mapello, che Leonardo ebbe agio di conoscere fra il 1508 e il 1513 in Milano; l’interessamento dimostrato nel costituirgli la dote, potrebbe essere messo in rapporto colla donazione della vigna al Salaj, e colla successiva menzione di Lorenzina come legataria di Leonardo.
L’atto di cessione di parte della vigna di S. Vittore, venne celebrato solo il 9 agosto 1498, col dare in cambio di quella zona ceduta, pertiche 814 di terreno, in parte irriguo, situato nel territorio di Cusago, del reddito annuo di l. 564, s. 17, d. 9. Vedasi G. Biscaro,
op. cit., pag. 373.
Uno dei testimoni citati nel 1506 per la rivendicazione del terreno donato alle monache di S. Lazzaro, ebbe a deporre di avere più volte raccolto la notizia di quella donazione, mentre lavorava al convento delle Grazie «ad construendum sacristiam et certa alla hedificia in dicto monasterio S. Marie gratiarum»: fra le persone al corrente della donazione, perchè frequentavano quei lavori, egli ricordava in particolar modo «Leonardo florentino pictore».
L'intera monografia si può leggere e/o scaricare qui:
https://independent.academia.edu/GiancarloMauri
immagini del bombardamento scattate nelle ore successive
Il terreno posseduto dal monastero detto di S. VittoreChe si era aggregato all’antica basilica Porziana, doveva in origine arrivare sino alla strada radiale da Porta Vercellina: naturalmente, collo sviluppo continuo della città nella zona fra il circuito del Naviglio e quello del Redefosso, la porzione di quel possesso confinante colla strada di Porta Vercellina, risultando sempre più adatta per case di abitazioni e negozi, venne dal monastero divisa in lotti fronteggianti la strada, e concessi a livello perpetuo: la linea interna di queste cessioni dovette seguire l’andamento della strada, ad una distanza media da questa di m. 70 circa, che consentiva ad ogni lotto di fabbrica di avere la corrispondente zona da sistemare ad orto.
È la pianta catastale di Milano - disegnata a mano dal geometra Giovanni Filippini, ingegnere della serenissima Repubblica di Venezia l’anno mdccxxii - donata al Comune nel 1901. La pianta Dal Re, del 1734 non offre eguale esattezza, ma è interessante per la indicazione della zona a giardini ed orti. Vedasi a pagina seguente.
La chiesa originariamente annessa al monastero di S. Gerolamo dei Gesuiti, eretta nella seconda metà del sec. xv, e trasformata radicalmente sulla fine del secolo successivo, doveva contenere opere artistiche interessanti, conte lasciava supporre la porta laterale di accesso alla chiesa dal borgo delle Grazie, che a nostra memoria si vedeva al n. 37 del Corso Magenta (
vedi piante a pag. 10 e 12) donata al Comune, nell’occasione della riforma in quella casa: un piccolo frammento di scoltura della scuola dei Mantegazza, si rinvenne nella stessa circostanza.
Anche la chiesa riformata nel 1589, conteneva decorazioni pittoriche, le quali determinarono la iscrizione di quello stabile comunale nell’elenco degli edifici soggetti a sorveglianza per la tutela delle memorie storiche ed artistiche. Ciò non impedì, che per un deplorevole sentimento di indipendenza da ogni tutela, di cui è invasa l’Amministrazione comunale, qualunque sia il partito imperante a Palazzo Marino, l’ufficio investito del compito di tutela si sia trovato a dovere constatare la chiesa di S. Gerolamo rasa al suolo, senza che tale provvedimento fosse stato notificato, almeno per dar tempo al rilievo ed eventuale salvataggio di qualche memoria d’arte.
La indifferenza, sorretta dalla presunzione, determina spesso un erroneo concetto di autorità, pronto a frustrare qualsiasi proposito il quale non miri al materiale ed immediato interesse pubblico.
L’anzidetta porta del sec. xv si trova oggi nelle sale terrene del Castello Sforzesco, ed è un esempio interessante della ornamentazione figurata milanese di quell’epoca: degna della scuola del Mantegazza, potrebbe essere opera di quel «Paulus de la Porta f. q. d. Petri par. S. Protasii in campo» che nel 1495 allogava l’opera sua al monastero di S. Gerolamo, per un anno «in arte tagliaprede in figuris et in allisquibus fuerit necesse» (Biscaro,
a. s. l., p. 379).
La menzione della frase «
mi trovo lire 218, a dì primo aprile 1489» ha indotto a ravvisarvi una «melanconica annotazione» per confermare la cervellotica tesi della miseria, in cui Leonardo avrebbe lungamente vissuto a Milano. Nel fatto, quella frase si legge su di un foglio del
Cod. Atl. (384,
r) cosparso di conteggi relativi ai denari che Leonardo teneva nel suo studio, parte in vari ripostigli, parte della sua borsa: e l’accennata somma non è che una porzione del peculio, che Leonardo teneva a quell’epoca presso di sè.
Le buone condizioni della famiglia del Salaj risultano da vari atti notarili, menzionanti affitti ed acquisti di case, stipulati dal nonno Giov. Batt. da Oppreno: nel settembre 1496 «dominus Baptista de Oppreno filius q. d. d. Andree» abitante in Porta Vercellina, parrocchia di S. Naborre, rilascia ricevuta del pagamento di un canone livellario: nel gennajo dello stesso anno, riceve il pagamento dell’affitto «certorum bonorum altorum in porta vercelina par S. Naboris et Felicis»: nel maggio dell’anno seguente acquista una casa nella stessa parrocchia, per il prezzo di lire 500 imp. Tutto ciò, oltre al titolo di
dominus, concorre ad accertare le buone condizioni della famiglia del Salaj.
Merita di essere rilevato il fatto che il nome era scritto «Salaynus» e il
nusvenne cancellato: il che è un’altra prova della incertezza grafica che si accompagnò al sopranome dato al figlio di «Pietro de Caprotis de Oppreno», il quale nel 1513, essendo da ormai ventitrè anni al fianco di Leonardo, mostrò di preferire quel nome di Salaj, che il maestro aveva da venti anni adottato nei suoi
mss.
Documento pubblicato dal Calvi nell’articolo della
Rassegna d’Arte luglio-agosto 1919, dal titolo:
Il vero nome di un allievo di Leonardo: Gian Giacomo Caprotti detto «Salaj».
Il documento xiii, sebbene non abbia, a stretto rigore, relazione diretta colla vigna di Leonardo, è un elemento essenziale per le vicende del possesso di Leonardo, non solo per essere il documento che contribuì ad accertare nel «Giov. Giacomo» venuto in servizio di Leonardo nel 1490, il figlio di Pietro da Oppreno, affittuario nel 1499 della vigna, ma anche per la attestazione che le sorelle Lorenzina ed Angelina ereditarono da lui: il che spiega la coerenza della proprietà di Lorenzina Caprotti, colla parte di vigna posseduta da G. B. Villani.
La identificazione del Salaj, basata sul documento xiii, venne da me esposta nel
Marzocco 7 sett. 1919, collo scritto «
L’enigma di Andrea Salaj risolto ».
È singolare la menzione di Lorenzina de Caprotti come «legataria suprascripti quondam dom. magistri Leonardi» anzichè come erede del fratello Salaj, al quale direttamente Leonardo aveva lasciato la metà della vigna. A questo proposito, ricordando come Leonardo abbia nel 1508 prestati 13 scudi a Salaj «per compiere la dote alla sorella» si può pensare che questa fosse la Lorenzina, sposata a mag.
oTomaso Mapello, che Leonardo ebbe agio di conoscere fra il 1508 e il 1513 in Milano; l’interessamento dimostrato nel costituirgli la dote, potrebbe essere messo in rapporto colla donazione della vigna al Salaj, e colla successiva menzione di Lorenzina come legataria di Leonardo.
L’atto di cessione di parte della vigna di S. Vittore, venne celebrato solo il 9 agosto 1498, col dare in cambio di quella zona ceduta, pertiche 814 di terreno, in parte irriguo, situato nel territorio di Cusago, del reddito annuo di l. 564, s. 17, d. 9. Vedasi G. Biscaro,
op. cit., pag. 373.
Uno dei testimoni citati nel 1506 per la rivendicazione del terreno donato alle monache di S. Lazzaro, ebbe a deporre di avere più volte raccolto la notizia di quella donazione, mentre lavorava al convento delle Grazie «ad construendum sacristiam et certa alla hedificia in dicto monasterio S. Marie gratiarum»: fra le persone al corrente della donazione, perchè frequentavano quei lavori, egli ricordava in particolar modo «Leonardo florentino pictore».
L'intera monografia si può leggere e/o scaricare qui:
https://independent.academia.edu/GiancarloMauri